La luce crudele

La luce crudele - fotografia e violenza politica

Titolo Originale: ? Autore: Susie Linfield Traduzione: Maria Baiocchi e Anna Tagliavini Editore: Contrasto Pubblicazione: 2013 Pagine: 335 Dept: fotografiafotografia













persone

A

[[Matthew Abbott]]


B

[[Letizia Battaglia]], fotografa sicialiana (1935-2022)
[[Gianni Berengo Gardin]]
[[Amber Bracken]]


D

[[Luisa Dörr - Le gonne d...
, antropoceneantropocene
lista delle referenze

libri

[[Il pianeta umano]]
[[La terra inabitabile]]
[[L'incredibile viaggio delle piante]]


Posizione: working


tematiche

auschwitz

  • In the ghetto of Warsaw di Heinrich #Jost (soldato tedesco che gira per il getto con la sua Reflex) settembre 1941 (79)
  • immagini di persone che stanno per essere uccise
  • nazisti usavano le foto per documentare la loro "pulizia" anche se poi si ritorsero contro di loro nel momento di dimostrare i crimini di guerra
  • ad Auschwitz c'erano due fotografi ufficiali delle SS (chi?) (82)
  • foto: ebrei nudi, vivi, sull'orlo di una fossa e soldati in divisa e civili pronti a infierire su di loro. Quando la guardiamo ci mettiamo nella posizione di chi l'ha scattata, cioè di un assassino. Ma quando guardo questa foto cosa vedo: vedo la spregevole debolezza ebraica come avevano inteso i Nazisti, o vedo la barbarie nazista? Queste foto dicono qualcosa sugli ebrei ma dicono molto di più sugli oppressori tedeschi. Sono, ancora di più, la prova dei crimini commessi contro gli ebrei, sono degli "autoritratti della degradazione nazista"

Non siamo forse loro complici quando le mettiamo in mostra? abbiamo il diritto di mostrare le persone negli ultimi istanti prima di affrontare la morte? i tormenti e la morte di milioni di essere umani dovranno essere replicati sui muri dei musei di tutto il mondo così che altri milioni possano guardare? - Janina Struk Photographing the Holocaus. Interpretation of the Evidence Le vittime, conclude Struk, non hanno avuto altra scelta che lasciarsi fotografare. E adesso non hanno altra scelta che lasciarsi guardare dai posteri. NOn avevano già sofferto abbastanza la prima volta? (84)

!Schermata 2021-01-06 alle 16.51.46.png articolo del new york times del 20 agosto 1990 pagina 37 sulla mostra "A day in warsaw ghetto"

cina - piazza rossa

sierra leone

abu ghraib (163)

  • "immagini che non soltanto ritraggono atti di crudeltà ma li celebrano" (163)
  • la "civiltà presume che gli uomini si vergognino o come minimo temano le conseguenze, degli atti di violenza che compiono"
  • aprile 2004
  • sono ovunque (163)
    • lapidi di Gaza ("vi vendicheremo")
    • vendute nei suk arabi
    • usate nei video di reclutamento di gruppi terroristici
  • storia delle foto (168-169)
  • verità?

verità o falsita si applicano non alla foto in sé ma alle affermazioni che facciamo riguardo una foto … da sola, isolata dal contesto, senza didascalie - una foto non è né vera né falsa… perché la verità, propriamente detta, concerne i rapporti tra linguaggio e realtà , non tra fotografia e realtà (Errol Morris, in Zoom su New York Times)

ma le foto di Abu Ghraib dimostrano invece il contrario (172)

jihad

fotogiornalismo e diritti umani

robert capa - l'ottimista

  • Capa, Robert
  • foto di Robert Capa sul fronte aragonese, spagna, 1936 dove due miliziani ballano circondati da gente che si diverte. Descrizione foto (187)
  • la fotografia è più una forma di giornalismo che di arte (190)
  • infatti la fotografia divenne parte essenziale del nuovo giornalismo: documentava qualsiasi cosa, dalle ultime novità della modo alle stelle del cinema, dai problemi sociali, alle catastrofi naturali e alle convulsioni politiche (192)
  • le sue foto non sono perfette ma aveva l'occhio per l'effetto drammatico, l'istinto narrativo, l'intuito emotivo, il particolare rivelatore (191)

james nachtwey - il catastrofista

gilles peress - lo scettico

commenti esterni

smargiassi - repubblica blog

Occhi aperti nella luce crudele https://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2013/05/10/occhi-aperti-nella-luce-crudele/

C'era un modo diverso, un modo senza immagini, per farci intuire che le macerie della fabbrica crollata in Bagladesh non hanno seppellito numeri di una contabilità, braccia affittate per un salario da miseria alla macchina del lusso occidentale, ma esseri umani con un nome, un volto, un cuore, un sentimento della vita?

Eppure, ne sono abbastanza certo, qualcuno dirà che questa sconvolgente fotografia di Taslima Akhter non doveva essere pubblicata. Che "non aggiunge nulla alla notizia", che è "pornografia dell'orrore" eccetera. È la reazione più comune, credo in buona fede, di molti lettori. Ma è anche la reazione abituale, autorevolmente supportata da colta indignazione, di certi guru della comunicazione e della fotografia.

Ma perché mai tanti critici, studiosi, intellettuali della fotografia odiano la fotografia? Qualcuno ha provato a farsi questa domanda.

A Susie Linfield non è stato difficile mettere assieme una lunga lista di illustri diffidenze. Del resto, il sospetto verso l'immagine ha una storia autorevole, soprattutto nel pensiero francese, dallo strutturalismo al postmoderno, per poi far breccia tra gli intellettuali radical americani.

Scrittrice e giornalista americana, Linfield è l’anti-Sontag. Ha scelto di difendere ciò che una potentissima corrente di pensiero critico ha in maggiore sospetto, ovvero la fotografia del "dolore degli altri". La luce crudele (ora tradotto da Contrasto) è un libro coraggioso sul diritto e dovere di tenere gli occhi aperti.

"Cosa c’è di sbagliato nel mostrare l’esistenza della sofferenza, cosa c’è di giusto nel nasconderla?", è una frase che mi avrete già sentito citare. Ebbene, senza togliere nulla agli strumenti di analisi critica sul potere e gli inganni delle immagini che Sontag ci ha fornito, su questo Linfield mi ha convinto.

Il disprezzo su questo umile, difettoso ma indispensabile rapporto sul mondo che è la fotografia, quando mostra cose terribili, è piovuto a catinelle da una critica politica e culturale che aveva un obiettivo giusto, ossia metterci in guardia dalla fiducia ingenua nella trasparenza del mezzo fotografico e smascherare i contesti di potere che lo attraversano, ma che ha finito per gettare via, con l'acqua sporca, anche il bambino della testimonianza.

C'è quindi da meravigliarsi, come osserva con sana irritazione Vicki Goldberg nel suo recente Light Matters, che "i fotogiornalisti abbiano ancora abbastanza fiducia nel valore di quel che fanno da continuare a farlo".

Ma sul perché accada che l'irritazione dell'osservatore anche professionale di fotografie si scarichi contro il fotografo (e perfino contro le vittime) più che contro l'ingiustizia che ci mostrano, abbiamo già discusso qui.

Mi chiedo ora, e vi chiedo, se davvero la fotografia non possa trovare la forza e l'orgoglio di ribaltare gli eccessi autolesionisti di questo meccanismo di autodifesa dall'orrore.

Certo, la fotografia ha i suoi limiti. È un testimone debole, spesso reticente, spesso balbuziente, corruttibile e a volte corrotto. Ma se sappiamo ormai bene, dice Linfield, quel che le foto non sanno fare, perché non riusciamo ad apprezzare quello che invece sanno fare meglio?

Che non è poco. Di fotografie continuiamo ad avere bisogno. Sono fra noi e non ci lasciano, neppure nell'era dell'immagine in movimento. A loro ricorriamo per mettere alla prova le nostre reazioni, anzi per lasciarci suscitare reazioni. Non solo per credere alla “realtà” del rappresentato.

Infatti, il problema è questo, che proprio quando chiediamo alle foto di darci la "realtà", loro ci ingannano, non si rivelano all'altezza del ruolo. Quando chiediamo alle foto di dire una verità, schiantano e ci mentono.

Bisogna allora sollevarle da questo compito troppo pesante per le loro spalle, il lavoro dell'asserzione, della dimostrazione. E chiedere loro, invece, di svolgerne un altro.

Di mostrarci i vuoti, gli scarti, le contraddizioni, tra quel che si vede e quel che si sa, tra quel che è visibile e quel che è nascosto. Di portarci questo scarto sul palmo di una mano, e poi chiedere a noi di pensare, di asserire, di concludere. Chi porta la colpa di quell'ultimo straziante abbraccio fra calcinacci e tondini d'acciaio ritorti? Chi?

Le fotografie non tirano conclusioni universali, ma sanno mostrare "che dietro ogni affermazione di principio ci sono corpi e esistenze di persone singole". Sanno mostrare la vulnerabilità dell'uomo, anche se non riescono a indicarne le cause e i colpevoli. Ma questo è un lavoro da uomini, non da cose. Care foto, lasciatelo fare a noi.

Le fotografie, dice Linfield, "non riescono a fotografare i diritti dell’uomo, ma possono mostrare cosa accade quando mancano quei diritti". E questo riscono a farlo bene, perfino quando i fotografi sono gli stessi perpetratori, i torturatori, i carnefici.

Linfield non risparmia gli esempi, dall'album del nazista Stroop nel Ghetto di Varsavia al meticoloso orrore catalografico delle foto d'identità dei campi di sterminio cambogiani, fino ai rivoltanti souvenir dei sadici sorridenti torturatori di Abu Ghraib.

Perché allora è così difficile "riabilitare", come domanda e non più come risposta, la fotografia, compagna dei nostri sguardi da ormai due secoli? Ma è chiaro.

Perché questo obbligherebbe noi ad assumerci le responsabilità che volentieri abbiamo sempre rovesciato addosso a lei, per poi bollarla come incapace e pornografica e finire lì la partita, dandoci la scusa per chiudere gli occhi, con sdegno, su quello che, con umile cocciutaggine, lei continua a farci vedere.